Passeggiando con la storia
Palazzo Gravina degli Orsini a Napoli, una storia da conoscere
Rubrica “Passeggiando con la storia” a cura di Giuseppe Massari
giovedì 4 febbraio 2021
19.33
Per stilare queste dettagliate, ma sommarie note storico-descrittive ed urbanistiche riferite al Palazzo , Orsini di Gravina a Napoli meglio noto come palazzo Gravina, mi sono avvalso della tesi di laurea di Dottorato di Ricerca, discussa da Cristiana Parretti, presso l'Università della Tuscia di Viterbo su: "Il cardinale Domenico Orsini (1719 – 1789) mecenate tra Roma e Napoli: la sua attività attraverso i documenti d'archivio" L'immobile prende il proprio nome da uno dei feudi che gli Orsini possedevano nel Regno di Napoli ed è un celebre monumento dell'architettura rinascimentale napoletana, anche se dell'edificio è disponibile soltanto un limitato bagaglio di notizie certe sulla genesi e lo sviluppo.
Il principale dato di riferimento per la costruzione dell'edificio è costituito dalla data di acquisizione dei terreni, 24 settembre 1513, sui quali venne edificato il palazzo: la notizia è stata resa nota nel 1897 da Giuseppe Ceci, nel primo fondamentale saggio sul monumento e riguarda l'acquisto del giardino del monastero di Santa Chiara, effettuato da Don Ferdinando Orsini duca di Gravina dal 1504 al 1549, condottiero e figura di rilievo nel panorama politico del tempo .
Il ruolo del nobile quale committente del palazzo, è confermato poi nell'iscrizione originaria, una volta incisa nel marcapiano marmoreo dell'immobile , che recita "FERDINANDUS URSINUS GENERE ROMAN US GRAVINENS IUM DUX AC NERULANORUM COMES COSPICUAM HANC DOMUM SIBI SUISQUE ET AMICIS OMNIBUS A FUNDAMENTIS EREXIT", il cui testo, in italiano grazie all'amico Antonio Bronzini, si può leggere così: "Ferdinando Orsini, romano di nascita, comandante dei gravinesi e amico dei napoletani, eresse dalle fondamenta questo imponente palazzo per sé, per i suoi e per tutti gli amici".
La struttura, nata agli inizi del XVI secolo, si presenta come prodotto di una cultura polivalente, soluzione riscontrabile anche in altri palazzi presenti nella città di Napoli . La tipologia cinquecentesca è ancora leggibile nella facciata e nel cortile, nonostante le modificazioni e i restauri subiti nel corso dei secoli e l'immobile, attualmente, appare come la risultante di una successione di interventi, terminati nel 1936, con la destinazione dell'edificio, da quell'anno fino ai nostri giorni a sede della Facoltà di Architettura. Bisogna aggiungere che i tanti rimaneggiamenti, furono dovuti anche ad un incendio subìto dal palazzo.
Il 15 maggio del 1848 fu distrutto da un incendio. Espropriato dalle ricchezze del conte dei Camaldoli per pubblica utilità, fu acquisito dallo Stato, con decreto reale. Fu completamente restaurato, aggiungedovi il quarto lato e rivestiti in piperno i basamenti delle facciate. Fu adibito poco prima del 1860 a sede della Regia Posta. In quegli anni lavorarono nel palazzo la poetessa Matilde Serao come telegrafista e E. A. Mario, autore della Leggenda del Piave, come impiegato delle poste. Poi verrà utilizzato per farci gli uffici dell'amministrazione del Registro, del Bollo e delle Finanze prima che questa occupasse il vecchio monastero di San Pietro Martire all'imbocco su Mezzocannone. Al secondo piano si ricordano ospitati gli uffici dell'Amministrazione Generale delle Acque e delle Strade, la Scuola di Applicazione degli Ingegneri ed il Dipartimento delle Acque e delle Foreste.
Il palazzo, infatti, si erge su un basamento in bugnato isodomo di piperno lavorato in superfici e, presentando all'interno di questo otto finestre rettangolari. Sopra tale blocco, un listello modanato a toro delimita in basso il fregio sul quale era originariamente incisa un'iscrizione; sopra, una leggera cornice d i marmo completa questa fascia divisoria. Il piano nobile superiore è scandito da dieci lesene corinzie in pietra lavica, intervallate da finestre rettangolari di marmo bianco che si stagliano sul fondo grigio, coronate da cartelle a loro volta rettangolari; sopra, altrettante volute in rilievo, al culmine delle quali sono posti loculi circolari circoscritti da ghirlande di alloro, contenenti busti marmorei raffiguranti antichi uomini illustri ancora non identificati. A conclusione dell'edificio si erge una trabeazione in piperno con leggere modanature e un cornicione non eccessivamente aggettante.
Il cortile del palazzo, all'interno, si presenta come un volume quasi cubico, con un porticato di pianta quadrangolare, che mantiene nella facciata orientale l'originaria impaginazione cinquecentesca, caratterizzata da cinque arcate a tutto sesto che si ergono su possenti pilastri di piperno a base quadrata. Nei pennacchi degli archi sono inseriti dei tondi di marmo, all'interno dei quali compaiono simboli araldici e allegorici; sopra gli stessi archi si eleva una trabeazione sulla quale si erge il piano nobile, caratterizzato da un secondo ordine di arcate, intervallate da lesene corinzie. Nei vani formati dall'alternarsi delle lesene, si trovano finestre aperte in marmo, uguali a quelle della facciata del palazzo, e finestre cieche in pietra lavica con all'interno nicchie concluse da conchiglie. Anche tra gli archi del piano nobile sono inseriti dei medaglioni marmorei simili a quelli già ricordati, con all'interno busti di avi della famiglia Orsini.
Le finestre negli archi del piano nobile sono volte ad illuminare il piano ammezzato realizzato nel XIX secolo. L'impianto quadrangolare dell'edificio è un assetto raggiunto nel corso dei secoli e la conformazione originaria del palazzo rimane una questione irrisolta, nonostante gli studiosi abbiano cercato di ricostruire la tipologia cinquecentesca dell'edificio tramite le fonti iconografiche dell'urbanistica del tempo. Nel 1549 vengono eseguiti i lavori di completamento del tetto sotto la guida dell'architetto Giovanni Francesco di Palma, lasciando presupporre la fine delle opere di edificazione del palazzo. Manca in effetti il nome dell'architetto che progettò l'intero edificio, anche se una fonte del 1539 assegna la paternità dell'opera all'architetto napoletano Gabriele D'Angelo, attribuzione poi ripresa in scritti del XVII389 e XVII I secolo.
In alcuni testi vengono tuttavia avanzati forti dubbi su questa assegnazione, arrivando a proporre altre attribuzioni basandosi su basi stilistiche: tra i nomi proposti emerge quello dell'architetto Giovanni Donadio detto il Mormando per le analogie riscontrabili tra palazzo Gravina e palazzo Capua, realizzato dallo stesso architetto; a maggior conferma si evidenzia il legame di parentela tra il Donadio e Giovan Francesco di Palma, al quale si deve, come già evidenziato, la conclusione dei lavori a palazzo Gravina . Stando alle deduzioni emerse dall'analisi delle rappresentazioni cinquecentesche che documentano l'immobile, l'originale fase costruttiva, risalente come già detto alla prima metà del Cinquecento, vedeva il palazzo composto da tre corpi di fabbrica, disposti intorno ad un cortile rettangolare; sul quarto lato del cortile, quello ad est, era posto un blocco di fabbrica più basso che lasciava vedere il giardino sul lato posteriore dell'edificio, realizzato sui terreni acquisiti dal monastero di Santa Chiara. Data la mancanza di fonti documentarie attendibili, non è possibile stabilire se questa iniziale conformazione sia stata frutto di un progetto preciso o causata dall'interruzione dei lavori dovuti alla morte del committente Ferdinando Orsini nel 1549 : alcune fonti letterarie tra Cinquecento e Settecento segnalano comunque l'incompiutezza del palazzo.
Il principale dato di riferimento per la costruzione dell'edificio è costituito dalla data di acquisizione dei terreni, 24 settembre 1513, sui quali venne edificato il palazzo: la notizia è stata resa nota nel 1897 da Giuseppe Ceci, nel primo fondamentale saggio sul monumento e riguarda l'acquisto del giardino del monastero di Santa Chiara, effettuato da Don Ferdinando Orsini duca di Gravina dal 1504 al 1549, condottiero e figura di rilievo nel panorama politico del tempo .
Il ruolo del nobile quale committente del palazzo, è confermato poi nell'iscrizione originaria, una volta incisa nel marcapiano marmoreo dell'immobile , che recita "FERDINANDUS URSINUS GENERE ROMAN US GRAVINENS IUM DUX AC NERULANORUM COMES COSPICUAM HANC DOMUM SIBI SUISQUE ET AMICIS OMNIBUS A FUNDAMENTIS EREXIT", il cui testo, in italiano grazie all'amico Antonio Bronzini, si può leggere così: "Ferdinando Orsini, romano di nascita, comandante dei gravinesi e amico dei napoletani, eresse dalle fondamenta questo imponente palazzo per sé, per i suoi e per tutti gli amici".
La struttura, nata agli inizi del XVI secolo, si presenta come prodotto di una cultura polivalente, soluzione riscontrabile anche in altri palazzi presenti nella città di Napoli . La tipologia cinquecentesca è ancora leggibile nella facciata e nel cortile, nonostante le modificazioni e i restauri subiti nel corso dei secoli e l'immobile, attualmente, appare come la risultante di una successione di interventi, terminati nel 1936, con la destinazione dell'edificio, da quell'anno fino ai nostri giorni a sede della Facoltà di Architettura. Bisogna aggiungere che i tanti rimaneggiamenti, furono dovuti anche ad un incendio subìto dal palazzo.
Il 15 maggio del 1848 fu distrutto da un incendio. Espropriato dalle ricchezze del conte dei Camaldoli per pubblica utilità, fu acquisito dallo Stato, con decreto reale. Fu completamente restaurato, aggiungedovi il quarto lato e rivestiti in piperno i basamenti delle facciate. Fu adibito poco prima del 1860 a sede della Regia Posta. In quegli anni lavorarono nel palazzo la poetessa Matilde Serao come telegrafista e E. A. Mario, autore della Leggenda del Piave, come impiegato delle poste. Poi verrà utilizzato per farci gli uffici dell'amministrazione del Registro, del Bollo e delle Finanze prima che questa occupasse il vecchio monastero di San Pietro Martire all'imbocco su Mezzocannone. Al secondo piano si ricordano ospitati gli uffici dell'Amministrazione Generale delle Acque e delle Strade, la Scuola di Applicazione degli Ingegneri ed il Dipartimento delle Acque e delle Foreste.
Il palazzo, infatti, si erge su un basamento in bugnato isodomo di piperno lavorato in superfici e, presentando all'interno di questo otto finestre rettangolari. Sopra tale blocco, un listello modanato a toro delimita in basso il fregio sul quale era originariamente incisa un'iscrizione; sopra, una leggera cornice d i marmo completa questa fascia divisoria. Il piano nobile superiore è scandito da dieci lesene corinzie in pietra lavica, intervallate da finestre rettangolari di marmo bianco che si stagliano sul fondo grigio, coronate da cartelle a loro volta rettangolari; sopra, altrettante volute in rilievo, al culmine delle quali sono posti loculi circolari circoscritti da ghirlande di alloro, contenenti busti marmorei raffiguranti antichi uomini illustri ancora non identificati. A conclusione dell'edificio si erge una trabeazione in piperno con leggere modanature e un cornicione non eccessivamente aggettante.
Il cortile del palazzo, all'interno, si presenta come un volume quasi cubico, con un porticato di pianta quadrangolare, che mantiene nella facciata orientale l'originaria impaginazione cinquecentesca, caratterizzata da cinque arcate a tutto sesto che si ergono su possenti pilastri di piperno a base quadrata. Nei pennacchi degli archi sono inseriti dei tondi di marmo, all'interno dei quali compaiono simboli araldici e allegorici; sopra gli stessi archi si eleva una trabeazione sulla quale si erge il piano nobile, caratterizzato da un secondo ordine di arcate, intervallate da lesene corinzie. Nei vani formati dall'alternarsi delle lesene, si trovano finestre aperte in marmo, uguali a quelle della facciata del palazzo, e finestre cieche in pietra lavica con all'interno nicchie concluse da conchiglie. Anche tra gli archi del piano nobile sono inseriti dei medaglioni marmorei simili a quelli già ricordati, con all'interno busti di avi della famiglia Orsini.
Le finestre negli archi del piano nobile sono volte ad illuminare il piano ammezzato realizzato nel XIX secolo. L'impianto quadrangolare dell'edificio è un assetto raggiunto nel corso dei secoli e la conformazione originaria del palazzo rimane una questione irrisolta, nonostante gli studiosi abbiano cercato di ricostruire la tipologia cinquecentesca dell'edificio tramite le fonti iconografiche dell'urbanistica del tempo. Nel 1549 vengono eseguiti i lavori di completamento del tetto sotto la guida dell'architetto Giovanni Francesco di Palma, lasciando presupporre la fine delle opere di edificazione del palazzo. Manca in effetti il nome dell'architetto che progettò l'intero edificio, anche se una fonte del 1539 assegna la paternità dell'opera all'architetto napoletano Gabriele D'Angelo, attribuzione poi ripresa in scritti del XVII389 e XVII I secolo.
In alcuni testi vengono tuttavia avanzati forti dubbi su questa assegnazione, arrivando a proporre altre attribuzioni basandosi su basi stilistiche: tra i nomi proposti emerge quello dell'architetto Giovanni Donadio detto il Mormando per le analogie riscontrabili tra palazzo Gravina e palazzo Capua, realizzato dallo stesso architetto; a maggior conferma si evidenzia il legame di parentela tra il Donadio e Giovan Francesco di Palma, al quale si deve, come già evidenziato, la conclusione dei lavori a palazzo Gravina . Stando alle deduzioni emerse dall'analisi delle rappresentazioni cinquecentesche che documentano l'immobile, l'originale fase costruttiva, risalente come già detto alla prima metà del Cinquecento, vedeva il palazzo composto da tre corpi di fabbrica, disposti intorno ad un cortile rettangolare; sul quarto lato del cortile, quello ad est, era posto un blocco di fabbrica più basso che lasciava vedere il giardino sul lato posteriore dell'edificio, realizzato sui terreni acquisiti dal monastero di Santa Chiara. Data la mancanza di fonti documentarie attendibili, non è possibile stabilire se questa iniziale conformazione sia stata frutto di un progetto preciso o causata dall'interruzione dei lavori dovuti alla morte del committente Ferdinando Orsini nel 1549 : alcune fonti letterarie tra Cinquecento e Settecento segnalano comunque l'incompiutezza del palazzo.