"La bellezza eroica" tra D’Annunzio e Ovidio: quando i classici parlano al presente
L’eco di Ovidio e D’Annunzio rivive nell’Ex Convento di Santa Sofia, tra mito, modernità e letteratura.
sabato 27 settembre 2025
C'è un filo sottile e resistente che unisce l'antico al moderno, la Roma di Augusto a quella decadente di fine Ottocento. A tracciarlo, nell'ambito della rassegna "Dialoghi nella Murgia", è stato l'incontro dal titolo "La bellezza eroica. D'Annunzio e Ovidio", tenuto dallo scrittore e attore Ennio Gagliastro, autore dell'omonimo libro, in dialogo con il docente Domenico Tenerelli.
Il pubblico, composto in maggioranza da studenti di scuola superiore, ha assistito a una conversazione intensa e ricca di suggestioni, guidata dall'idea che la classicità non sia un'eredità immobile, ma una materia viva, capace di riemergere nei momenti più imprevisti della modernità.
A fare da guida, fin dall'inizio, è stato un concetto: quello di "bellezza eroica", espressione dannunziana tratta da "Maia", una delle "Laudi", in riferimento all'aquila, simbolo imperiale per eccellenza. È attorno a questo sintagma che si costruisce l'intero dialogo tra antico e moderno, tra Ovidio e D'Annunzio, che emerge non come semplice accostamento letterario, ma come un vero e proprio sistema di rispecchiamenti: biografici, stilistici, poetici.
Tenerelli ha messo in luce l'idea, comune a entrambi, di una rinascita del classico nel presente: per Ovidio, attraverso la riscrittura del mito; per D'Annunzio, attraverso un'estetica che riplasma la realtà. La Roma celebrata da Ovidio nei "Fasti", città di fasti pubblici e ordine augusteo, si contrappone alla Roma decadente di D'Annunzio, vissuta e narrata nel segno della crisi e della trasfigurazione estetica. Ma entrambe restano centri simbolici: cuori pulsanti di un'identità culturale da costruire e ricostruire, specchi divergenti ma complementari, tra ordine imperiale e decadenza sensuale.
Nel "Piacere", come ha spiegato Gagliastro, l'eco ovidiana è evidente: Andrea Sperelli è lettore del poeta latino, e l'intero romanzo gioca con il tempo, la memoria, l'eros. Ma la più sorprendente tra le analogie è l'intuizione comune di entrambi gli autori di focalizzarsi sulle esigenze di un pubblico prevalentemente femminile: per D'Annunzio emerge proprio in quest'opera, in cui sfrutta le notizie di cronaca mondana come fonte di ispirazione del romanzo, lasciando a chiunque si cimentasse nella lettura un ipnotico senso di déjà-vu; per Ovidio si palesa nella sua "Ars Amatoria", in cui dedica ampio spazio a consigli di seduzione, cura estetica e dinamiche sentimentali.
L'estetismo dannunziano si fa così moderno in senso pieno, come ha evidenziato Tenerelli: è consapevole del proprio pubblico, si rivolge direttamente a esso, lo seduce, lo modella. Il riferimento alle Heroides, in particolare, ha permesso di aprire una riflessione profonda sul ruolo delle donne nell'opera dei due autori. Entrambi offrono uno spazio inedito alla voce femminile: Ovidio lo fa attraverso lettere d'amore fittizie scritte da eroine mitiche, da Didone ad Arianna, rendendole non solo protagoniste, ma anche padrone della propria narrazione, consegnando loro il più potente degli strumenti: la penna; D'Annunzio, invece, crea personaggi come Elena Muti, Maria Ferres e Foscarina, evidente alter ego di Eleonora Duse, donne complesse, spesso antitetiche, che diventano protagoniste della narrazione e custodi del desiderio.
Il tema dell'esilio ha poi offerto un ulteriore punto di contatto. Ovidio lo vive a Tomi, pagando per il suo carme et error, e pregando Augusto di concedergli la grazia; D'Annunzio lo inscena nel suo ritiro al Vittoriale, dove il buio reale della cecità si intreccia con quello simbolico del crepuscolo artistico. Entrambi, nella fase finale della loro vita, guardano a Roma da lontano, trasformandola in mito personale, in sogno perduto, in memoria da conservare.
In questo affascinante intreccio di rimandi, la "bellezza eroica" si rivela qualcosa di più di un ideale estetico: è la tensione verso un'origine, verso un passato da riscrivere nel presente. È il punto di incontro tra mito e modernità, tra identità e invenzione. Ed è proprio in questo dialogo senza tempo che Ovidio e D'Annunzio si riconoscono e si rispondono, da lontano, come due moderni tra i classici, e due classici tra i moderni.
Il pubblico, composto in maggioranza da studenti di scuola superiore, ha assistito a una conversazione intensa e ricca di suggestioni, guidata dall'idea che la classicità non sia un'eredità immobile, ma una materia viva, capace di riemergere nei momenti più imprevisti della modernità.
A fare da guida, fin dall'inizio, è stato un concetto: quello di "bellezza eroica", espressione dannunziana tratta da "Maia", una delle "Laudi", in riferimento all'aquila, simbolo imperiale per eccellenza. È attorno a questo sintagma che si costruisce l'intero dialogo tra antico e moderno, tra Ovidio e D'Annunzio, che emerge non come semplice accostamento letterario, ma come un vero e proprio sistema di rispecchiamenti: biografici, stilistici, poetici.
Tenerelli ha messo in luce l'idea, comune a entrambi, di una rinascita del classico nel presente: per Ovidio, attraverso la riscrittura del mito; per D'Annunzio, attraverso un'estetica che riplasma la realtà. La Roma celebrata da Ovidio nei "Fasti", città di fasti pubblici e ordine augusteo, si contrappone alla Roma decadente di D'Annunzio, vissuta e narrata nel segno della crisi e della trasfigurazione estetica. Ma entrambe restano centri simbolici: cuori pulsanti di un'identità culturale da costruire e ricostruire, specchi divergenti ma complementari, tra ordine imperiale e decadenza sensuale.
Nel "Piacere", come ha spiegato Gagliastro, l'eco ovidiana è evidente: Andrea Sperelli è lettore del poeta latino, e l'intero romanzo gioca con il tempo, la memoria, l'eros. Ma la più sorprendente tra le analogie è l'intuizione comune di entrambi gli autori di focalizzarsi sulle esigenze di un pubblico prevalentemente femminile: per D'Annunzio emerge proprio in quest'opera, in cui sfrutta le notizie di cronaca mondana come fonte di ispirazione del romanzo, lasciando a chiunque si cimentasse nella lettura un ipnotico senso di déjà-vu; per Ovidio si palesa nella sua "Ars Amatoria", in cui dedica ampio spazio a consigli di seduzione, cura estetica e dinamiche sentimentali.
L'estetismo dannunziano si fa così moderno in senso pieno, come ha evidenziato Tenerelli: è consapevole del proprio pubblico, si rivolge direttamente a esso, lo seduce, lo modella. Il riferimento alle Heroides, in particolare, ha permesso di aprire una riflessione profonda sul ruolo delle donne nell'opera dei due autori. Entrambi offrono uno spazio inedito alla voce femminile: Ovidio lo fa attraverso lettere d'amore fittizie scritte da eroine mitiche, da Didone ad Arianna, rendendole non solo protagoniste, ma anche padrone della propria narrazione, consegnando loro il più potente degli strumenti: la penna; D'Annunzio, invece, crea personaggi come Elena Muti, Maria Ferres e Foscarina, evidente alter ego di Eleonora Duse, donne complesse, spesso antitetiche, che diventano protagoniste della narrazione e custodi del desiderio.
Il tema dell'esilio ha poi offerto un ulteriore punto di contatto. Ovidio lo vive a Tomi, pagando per il suo carme et error, e pregando Augusto di concedergli la grazia; D'Annunzio lo inscena nel suo ritiro al Vittoriale, dove il buio reale della cecità si intreccia con quello simbolico del crepuscolo artistico. Entrambi, nella fase finale della loro vita, guardano a Roma da lontano, trasformandola in mito personale, in sogno perduto, in memoria da conservare.
In questo affascinante intreccio di rimandi, la "bellezza eroica" si rivela qualcosa di più di un ideale estetico: è la tensione verso un'origine, verso un passato da riscrivere nel presente. È il punto di incontro tra mito e modernità, tra identità e invenzione. Ed è proprio in questo dialogo senza tempo che Ovidio e D'Annunzio si riconoscono e si rispondono, da lontano, come due moderni tra i classici, e due classici tra i moderni.